Appendice IV: Intervista a Federico Croci, segretario di Simulmondo e fondatore di Spazio Tilt: Il museo del flipper di Bologna. Effettuata in data 21/09/2015

Simulmondo è stata la prima software house italiana, ma non la prima azienda in Italia ad occuparsi di videogiochi...

Come giochi da bar, giochi a moneta c’erano Zaccaria e altre ditte, ma era tutto un altro settore. Quasi tutte queste ditte erano a Bologna, per qualche misterioso motivo.

Per quanto riguarda i giochi da computer, la prima a produrli fu Simulmondo, almeno in grande scala. C’erano alcuni programmatori che avevano messo in commercio alcuni giochi, ma non c’erano aziende vere e proprie. Noi siamo stati sicuramente i primi a farli interamente in Italiano e con il manuale in italiano, che è stato il grande successo del momento. Fino ad allora c’erano solo giochi stranieri, e non erano distribuiti ufficialmente: a Bologna c’era Nannucci, il negozio di dischi di via Oberdan, che ha chiuso qualche anno fa, che aveva una sezione per i giochi da computer: floppy vergini (che costavano 40.000 lire in confezione da dieci, un sacco di soldi!) e software originali più che altro dall’Inghilterra. Quindi chi capiva l’inglese aveva a disposizione avventure testuali come Hobbit, di cui ti davano anche il libro in omaggio. Quelle le trovavi solo da loro. Ma il problema era la lingua, anche se penso cheancora adesso in pochi si metterebbero a giocare un’avventura interamente in inglese, sarebbe una cosa molto da nerd (ride). All’epoca, fare giochi con il manuale in italiano fu la grande novità, secondo me: parliamo di un pubblico di ragazzini che avevano otto-nove anni, non era pensabile che potessero giocare o leggere il manuale in un'altra lingua. Quindi, offrire in italiano giochi come il calcio, con il manuale in italiano, era un gran punto di forza per Simulmondo. Poi c’era il problema della pirateria e nei giochi pirata i manuali non c’erano proprio, perciò molti raccoglievano giochi per collezione senza mai giocarci: anche perché molte copie pirata erano difettose, non funzionavano o non si potevano completare.

Le ditte che facevano giochi da bar erano un altro mondo. Tuttavia uno dei primi lavori con Simulmondo fu una collaborazione con Zaccaria, che al tempo aveva cambiato nome e si chiamava Mr. Game: avevano fatto due o tre flipper con un monitor che conteneva un videogioco fatto da un nostro collaboratore, poi non so dire se fosse un dipendente, un collaboratore o se abbia lavorato con noi solo per quel progetto. Un esemplare di questi flipper è conservato presso lo spazio Tilt di via Stalingrado a Bologna.

Come funzionava questo gioco?

In certe fasi del gioco del flipper, quando la palla finiva in una buca, il gioco si fermava e cominciava il videogame sul tabellone, nel quale bisognava giocare, ad esempio a motocross, usando i bottoni del flipper, per spostarti a destra o a sinistra. Questo aveva due bottoni laterali e altri due pulsanti in due specie di manopole, perciò permetteva di fare molte cose: si poteva far saltare la moto oppure bisognava schiacciarli velocemente nelle gare di automobilismo per far andare in testa la propria auto. Erano giochi molto semplici, ma all’epoca il programmatore faceva tutto lui, programmava, scriveva la musica e si inventava anche la storia del gioco. Non so in che linguaggio scrivesse. So che era un programmatore Amiga, ma non so se avessero trovato il modo di convertirlo da quel computer. Credo di sì dato che il gioco era in stereo e quella era una caratteristica di Amiga. Comunque era un gioco carino. Non ricordo come si chiamasse il programmatore, ma ricordo che era di Bologna. Comunque c’è scritto il suo nome sul flipper.

Come entrò in contatto con Carlà?

Conobbi Carlà attraverso questi gruppi di appassionati di Commodore 64, che all’epoca si riunivano in club o circoli. Uno di questi aveva affittato uno spazio aperto solo agli iscritti: una volta a settimana arrivavano 50 floppy dalla Germania con giochi e software nuovi e ci si trovava lì a copiare quello che poteva interessare. Si pagava un abbonamento mensile e si potevano copiare sul posto tramite Commodore 64 modificati che svolgevano l’operazione in un passaggio solo, macchine che nessuno si poteva permettere di avere in casa. Lì si potevano conoscere vari appassionati, tramite i quali si poteva arrivare alle copie migliori e sicuramente funzionanti: infatti, se ci si accontentava di giochi “semplici” come quelli sportivi, se ne potevano trovare facilmente copie funzionanti; ma se sicercavano giochi più complessi, come gli adventure che erano decisamente più lunghi, si poteva incappare in errori dicopiatura o malfunzionamenti di cui non si era accorto chi aveva fatto la copia pirata. Ad esempio, ad un certo punto il gioco poteva chiedere di inserire il secondo disco; a quel punto si scopriva che il pirata di era dimenticato di copiarlo e perciò non si poteva proseguire nel gioco.

Attraverso uno di questi giri di amicizie conobbi Carlà, che abitava in via Col di Lana e si stava laureando. All’epoca scriveva su un sacco di quotidiani come Rockstar e MC Microcomputer e cercava qualcuno che avesse finito alcune avventure per poterne pubblicare la soluzione e per disegnare la mappa dell’avventura [la mappa serviva adillustrare i vari ambienti di cui l’adventure era composto, in modo da evidenziarne i collegamenti] e gli presentarono me. Poi venne l’idea di fare un’azienda per produrre giochi in italiano; anche perché, essendo redattore di una rivista importante come MC, che si occupava di computer dal punto di vista della programmazione, Carlà riceveva molte lettere di persone che avevano scritto videogiochi e chiedevano consigli su come fare per poterli pubblicare. All’epoca non c’era nessuno che poteva garantire la pubblicazione o fosse interessato a garantirla, non c’era mercato. Perciò Carlà pensò di fondare un’azienda per rispondere a queste richieste, vista anche la qualità di alcuni dei lavori che riceveva.

Rimaneva il problema della conversione: poteva arrivare un gioco molto bello come idea e come realizzazione, ma che era stato fatto per MS DOS. Allora c’era bisogno di farne una versione per C64 che all’epoca era il sistema più diffuso: il problema era trovare un programmatore che lo rifacesse daccapo basandosi sull’idea di base del gioco originale, perché non era possibile convertire direttamente l’originale in una versione compatibile con un'altra piattaforma. Allora cominciarono ad arrivare in Simulmondo tutta un’altra serie di personaggi, come Ivan Venturi, che all’epoca era un ragazzino, ma si interessava di programmazione e fece i due primi giochi Simulmondo: Bowls e Simulgolf.

All’epoca il mercato grosso era quello per C64. Ho qui un documento dell’epoca dove sono scritti i prezzi da far fare al distributore per ogni versione. I prezzi erano fissi, come avveniva per i dischi, non venivano fissati in base algioco ma in base alla piattaforma su cui giravano: così un gioco Amiga costava 39.000 lire, C64 su cassetta 22.500 e 25.000 su disco, in realtà costava molto meno la produzione del disco, ma i prezzi erano fissi, decisi dal mercato, quindi quello doveva essere; per IBM bisognava fare lo stesso prezzo dell’Amiga, anche se la qualità non era minimamente paragonabile a quella dei giochi Amiga. Se avessimo fatto un discorso di qualità i giochi per PC avremmo dovuto venderli a 9.000 lire. Facendo un paragone con oggi, i prezzi di allora sono paragonabili con quello di un gioco di oggi per Playstation o Xbox.

Per IBM si facevano circa 250 copie. C64 cassetta ne facevamo minimo 15.000 e i giochi di maggior successo venivano poi ristampati. Le cassette avevano tirature elevate perché venivano fatte da una ditta esterna, perciò ne ordinavamo 10.000-15.000. Mentre per IBM, Atari ST e i primi per Amiga le replicavamo in ufficio, dato che erano 250 copie. Ci si impiegava qualche pomeriggio e si distruggevano i drive.

È vero che la prima edizione di F1 Manager non poté essere messa sul mercato per un problema sorto in fase di duplicazione?

Non ricordo, francamente. Anche se può essere capitato. Ricordo che, per Italy ‘90 Soccer avevamo preparato una protezione hardware da inserire nel computer. Consisteva in due resistenze inserite in un involucro di resina, così che non poteva essere aperta senza rompere tutto. Senza protezione il software non partiva. Tuttavia, ricevemmo lamentele perché una volta su cento capitava che questa protezione bruciasse i computer dei clienti. Non abbiamo mai capito da cosa dipendesse, forse dal fatto che gli Amiga non erano tutti uguali, ma ne esistevano diverse versioni, 500 e 1000.

In ogni caso su cassetta poteva capitare che ci fossero problemi nella duplicazione: per essere spedito all’azienda che si occupava della duplicazione, il programma veniva registrato su cassetta con un registratore C64 che era tutto tranne che affidabile: poteva capitare di avere il registratore disallineato, così il gioco funzionava solo su quello, ma non su tutti gli altri. Possibile che successe un problema del genere perché ricordo che Ivan [Venturi] decise di comprare dei nuovi registratori per fare i master. È più probabile che Ivan conosca questi aneddoti, io mi occupavo dei contatti con la stampa e di spedire il materiale ai duplicatori. Comunque l’inscatolamento era fatto a mano, quindi bastava fermare tutto e sostituire le cassette nelle scatole, se ci si accorgeva in tempo.

Ricordo un problema grave con uno dei giochi da edicola che impediva di proseguire, ma lì le tirature erano immense e il tempo per preparare i giochi molto poco. Così non c’era molto tempo per controllare che tutto andasse bene. Bisognava assicurare il rifornimento a tutti i punti vendita, quindi 2-3 copie ad edicola, e dopo sei mesi ci veniva recapitato l’invenduto, come capita per le riviste cartacee. Quindi al momento risultavano 300.000 copie vendute, poicominciavano ad arrivare i resi. Pensavamo di poterli riciclare, ma ritornavano in condizioni pietose, perché erano stati mesi sotto il sole oppure erano stati aperti dall’edicolante per essere copiati. Così ci voleva un capannone intero per smontare i pacchi che ritornavano e recuperarne il materiale.

Ricorda la presentazione di F1 Manager al GP di Monza?

 Non ricordo, ma di questi eventi si occupava Carlà e, a volte, ci andava Ivan. Ricordo, però, che avevamo un accordo con Cabrini per pubblicizzare i giochi di calcio.

Da dove arrivavano i fondi per l’attività dell’azienda?

I fondi erano assicurati dai soci, Carlà e Riccardo Arioti che aveva un’azienda che si occupava di duplicazione, soprattutto VHS e nastri magnetici.

Le aziende di cui vi servivate per duplicazione e distribuzione erano di Bologna oppure di altre città?

Erano di Bologna. Per l’impacchettamento si servivano di ditte esterne che fornivano personale non specializzato, come quelle che oggi forniscono i facchini. La duplicazione, invece, veniva fatta da aziendespecializzate. Tuttavia non ce n’erano molte specializzate nella duplicazione di floppy disk, come Pozzoli, che era tra le tre o quattro aziende in tutta Italia che se ne occupavano. Il nostro duplicatore ufficiale era un’azienda di AscoliPiceno aperta da un americano di nome McLory con i fondi per lo sviluppo del sud. Alla fine fece un crack pazzesco e McLory tornò di corsa in America. Spero non fosse per colpa nostra (ride)... Queste aziende, però, non facevano etichettatura, che doveva essere svolta a mano da noi: per questo nei giochi da edicola le etichette erano sfuse, non avevamo il tempo di attaccarle.

Questi giochi erano accompagnati da un libricino che ricordava l’albo a fumetti, che riportava i codici antipirateria e il manuale. Il primo di questi uscì con il primo numero di Dylan Dog, quando convincemmo (non so come ci riuscimmo!) la Bonelli a farci fare un albo ispirato al numero 5 di Dylan Dog, Gli uccisori. E così ci fecero Il ritorno degli Uccisori, da allegare al gioco. Avevano lo stesso formato dell’albo originale, stessa impaginazione: Carlà scrisse un’introduzione al posto delle “Lettere alla Redazione”. All’epoca ci fu un problema perché gli albi erano più grandi delle scatole e il cellophane che le ricopriva finiva per tirarne gli angoli, così l’albetto veniva tutto piegato. Però all’epoca non importava, visto che non c’era ancora il collezionismo di questi prodotti, considerando che Dylan Dog era una serie nata da poco e non si pensava sarebbe diventata una serie “storica” come è ora.

Facciamo un passo indietro. Quando nacque ufficialmente Simulmondo?

Nacque grazie all’idea di Carlà. All’inizio non avevamo uffici, se si guarda sulla prima versione della cartaintestata di Simulmondo, l’indirizzo è ancora via Col di Lana, la residenza di Carlà. Penso nacque nell’87-’88. Poi la società si trasferì in viale Berti Pichat: c’era l’ufficio di Carlà, quello di Venturi e io con una scrivania all’ingresso, un telefono ed un Commodore 64 Executive.

A volte in sede chiamavamo alcuni giornalisti per il lancio dei giochi. Ma le riviste di videogiochi dell’epoca traducevano gli articoli delle loro versioni inglesi, come Zzap!; quelle che se lo potevano permettere mandavano un giornalista. Io mi occupavo di spedire loro immagini e recensioni: molte riviste il gioco non lo vedevano neanche, per avere una buona recensione contava il fatto di essere inserzionista, se compravi loro delle pagine pubblicitarie ottenevi buone recensioni. Ci aiutava anche il fatto di essere italiani, cosa che era vista di buon occhio dalle riviste nostrane.

Com’era, invece, il rapporto con la stampa specializzata? 

I rapporti erano tenuti da Carlà. I giornalisti delle grandi testate che venivano in azienda, come nel caso de L’Espresso, venivano per intervistare il presidente e poi facevano foto ai collaboratori presenti. Ci veniva detto che sarebbero arrivati i giornalisti perché ci facessimo trovare un po’ vestiti bene. Perché all’epoca c’era un’atmosfera (ride)... Ovviamente non essendo un posto aperto al pubblico, c’era gente che girava praticamente in pantofole, come Ivan, che praticamente viveva lì.

Cosa pensava l’opinione pubblica dei videogiochi?

Ci si concentrava maggiormente sui giochi da bar, che erano i più diffusi. Ma l’opinione pubblica non era particolarmente interessata ai videogiochi. Non era diffusa l’idea che si potesse vivere di quello, come azienda o come programmatore.

Lei ha partecipato alla scrittura di Rimini, mare azzurro, gioco che, però, non fu mai completato...

Sì, ma doveva essere ambientato nel ventennio e davvero non ricordo cosa c’entrassi io con un gioco del genere... È probabile che io abbia collaborato perché Carlà mi conosceva come grande giocatore di avventure, perciò ilmio contributo si limitava a curare l’architettura del gioco, vista la mia esperienza con il genere. Ma sui contenuti non avrei potuto dire granché visto che era ambientata negli anni ‘20 o ‘30. Visto che doveva uscire per Amiga credo avrebbe dovuto essere un’avventura grafica alla ZaK McKraken [Zak McKraken and the Alien Mindbenders del 1988], che all’epoca andava per la maggiore. Prevedeva un po’ di testo, cioè una serie di comandi tra cui scegliere il che rendeva questo tipo di adventure molto più semplici di Hobbit o delle avventure di Infocom, che avevano dizionari interni molto sofisticati.

Cosa portò alla divisione tra Arioti e Carlà?

Non lo ricordo, anzi non so se l’ho mai saputo. Saranno stati problemi economici, immagino. Arioti aveva già un’azienda e avrà investito qualcosa in questa nuova azienda per poi tornare a quella vecchia. Niente di misterioso, presumo.

Dopo di ciò Arioti fonda Genias...

Fondò Genias con un ragazzo che lavorava con lui [credo si riferisca a Stefan Roda, numero due di Genias]. Arioti mise sotto contratto i programmatori che non avevano ancora un contratto con Simulmondo, ma non ricordo grandi successi, qualche gestionale e così via...

Invece, a noi è andata grassa con Dylan Dog, dato che si rivolgeva a quel pubblico che giocava ai videogiochi. Già Tex, che pure ebbe un certo successo, si rivolgeva ad un pubblico che non voleva avere niente a che fare con il computer e così anche Diabolik.

C’è una curiosità, alla Mr. Game c’era un grafico americano che si chiamava Tony Ramunni: aveva iniziatolavorando per la Bally e venne chiamato in Italia da Alfredo Cazzola, fondatore del Motorshow e dirigente della Virtus [squadra di basket di Bologna], che aveva rilevato Zaccaria e le aveva cambiato nome in Mr. Game. Cazzola propose a Ramunni di occuparsi di Mr. Game, ma l’azienda fallì dopo tre anni. Fece anche la grafica del Motorshow e quella delpiano dei flipper sviluppati da Mr. Game e Simulmondo. Quando Mr. Game fallì, mi vidi arrivare Ramunni a Simulmondo con un raccoglitore di disegni per proporsi come grafico pubblicitario. Noi all’epoca già usavamo ilcomputer, con cui montavamo le immagini per fare le pubblicità dei giochi. Perciò Ramunni fu assunto da Genias e lavorò a tutte le loro pubblicità, oltre a fare la grafica per le scatole e per alcuni giochi come Tilt.

Genias e Idea erano nate anni dopo, mentre noi già avevamo accordi importanti per la distribuzione, ad esempio con la CTO di Zola Predosa.

Come avveniva la distribuzione in Italia e all’estero?

Inizialmente spedivamo noi direttamente i giochi ai commercianti, poi prendemmo accordi con CTO, che distribuiva i giochi della Lucas. CTO traduceva i manuali e aveva anche preparato uno studio di registrazione per doppiare questi giochi, che erano pieni di dialoghi. Poiché c’erano moltissimi personaggi – e magari alcuni dicevano poche battute – prendevano il primo che passava e gli facevano registrare le battute: in un gioco ci siamo anche io e Ivan, che eravamo lì per caso.

Per l’estero faceva tutto CTO, perché era troppo complicato e costoso dato che ogni paese aveva una tariffa di spedizione diversa cui si aggiungevano i costi della dogana. Però se da noi i giochi avevano presa perché erano in italiano, all’estero c’era molta più concorrenza, specialmente sui giochi di calcio. Con la CTO facemmo il salto di qualità che ci permise di aumentare la vendita e la produzione.

Come era organizzata la produzione di un gioco?

All’inizio non era organizzata, nel senso che veniva cambiata di volta in volta. Quando si passò ai giochi daedicola si dovette ricorrere ad un’organizzazione sicura, perché altrimenti non se ne usciva... e anche così non ne uscimmo. Bisogna anche considerare che dovevamo fare tutto via posta, specialmente con i collaboratori esterni sparsi un po’ in tutta Italia: i programmatori inviavano a Bologna il disco, che impiegava una decina di giorni ad arrivare; se lo si mandava indietro per fargli fare alcune correzioni ci volevano altri dieci giorni, e così via.

Quando ci arrivava un progetto valido veniva messo a punto in vista della commercializzazione, limandone idifetti e aggiungendo, ad esempio, la schermata iniziale. Se era stato sviluppato per una piattaforma diversa dal C64 (la più diffusa e, quindi, il nostro principale obiettivo di mercato) bisognava assegnare un programmatore perché facesse una versione per C64. Poi il gioco veniva inviato dal duplicatore o duplicato in sede se la tiratura era piccola.

Quando si metteva in lavorazione un nuovo gioco si faceva pubblicità sulle riviste annunciandone titolo e prezzo (che già si sapeva, essendo standard) e con i tempi delle riviste bisognava farlo cinque mesi prima, indicando la data di uscita presunta. Poi si progettava la scatola: all’inizio se ne occupava un disegnatore, poi ricorremmo ad immagini generate al computer. I manuali li impostavo io in base alle istruzioni che mi davano i programmatori. Ad uncerto punto nel manuale inserimmo le protezioni, che erano liste di numeri, per funzionare il programma chiedeva di inserire il numero presente in una tale riga. Il problema sorgeva quando c’erano da fare correzioni al manuale, perché, così facendo, si modificava l’impaginazione e quindi anche l’ordine dei numeri del codice, mentre il programmarimaneva uguale. Quando accadeva inserivamo un foglietto con le correzioni. Più tardi usammo i colori invece dei numeri: bisognava indicare il colore presente in una determinata casella di una griglia. Ma queste protezioni non sono mai servite a molto, perché gli hacker riuscivano a copiare lo stesso. L’unico problema era che coloro che giocavano ad una copia pirata poi spargevano la voce che il gioco non funzionasse, quando invece era la loro copia pirata a non funzionare, e tra questi molti erano giornalisti: mi è capitato più di una volta di vedere sulle riviste immagini di schermate che non erano dell’originale.

Ogni fase aveva diversi tempi: per duplicare un floppy ci voleva una settimana, mentre per la cassetta ce ne volevano tre. Floppy, manuale e scatole giungevano separatamente alla ditta che si occupava dell’inscatolamento, laquale, poi, preparava le confezioni e le spediva ai negozi o al distributore. Perciò non era detto che tutte le versioni del gioco fossero pronte nello stesso momento.

Quando avvenne il passaggio dai giochi sportivi a quelli da edicola?

Avvenne quando Carlà entrò in contatto con Bonelli per il gioco di Dylan Dog, poi, vedendo il successo del gioco, decise di proseguire su questa strada. Fino a quel momento i giochi li inventavamo noi, c’era l’idea di faregiochi originali come Bocce: all’estero avevano fatto giochi sui più strani sport nazionali; noi decidemmo di fare un gioco sulle bocce perché si giocano solo in Italia (anche se non è vero, data la loro popolarità in Francia). Poi si passòal minigolf e poi, inevitabilmente, a tutti gli altri sport. Dopo averli simulati tutti, Carlà, che era un appassionato di Dylan Dog, riuscì ad ottenere un accordo con Bonelli e cominciammo a fare giochi sui fumetti. C’erano anche giochi su personaggi inventati da Carlà come Simulman: ai tempi di Col di Lana mi ricordo l’idea per un personaggio, Francy Frigo, che era un soprannome dato a Carlà da una fidanzata e poi divenne Simulman.

In Dylan Dog i programmatori si divertirono ad inserire le immagini dei gruppi che ascoltavano nei quadri appesi alle pareti, un’idea che fu apprezzata dai disegnatori della Bonelli che, naturalmente, non potevano farlo nei fumetti. A noi la storia dei diritti importava poco, anzi, magari ci avessero fatto causa i Pink Floyd, avremmo ottenuto un sacco di pubblicità! E comunque una causa avrebbe avuto poco senso: avrebbe impiegato quattro anni per giudicare un prodotto che esauriva la sua vita commerciale in qualche mese. La stessa cosa che avveniva con i giochi da sala: si poteva far causa a chi copiava le schede, ma a che scopo? Dopo due settimane erano già vecchie e quello ne stava copiando altre.

Oltre a questi facemmo Tex, Diabolik, Spider Man e altri. Spider Man fu un progetto che nacque male: dopo aver ottenuto i diritti dalla Marvel (e non ho idea di come ci riuscimmo. Probabilmente eravamo i primi a chiederlo) cominciammo a lavorare al progetto. L’accordo aveva la durata di un anno, ma a metà anno non era ancora pronto niente, perché eravamo troppo impegnati con le altre serie. Allora si chiese alla Marvel se la durata dell’accordo si calcolasse dall’uscita del primo numero, ma ci risposero che l’anno di durata dell’accordo era cominciato con la firma del contratto. Così uscirono pochissimi numeri di Spider Man, perché i diritti sarebbero finiti a dicembre, anche se c’era già il progetto per i capitoli seguenti. Il progetto era più complicato di quelli Bonelli perché ogni uscita andava approvata in anticipo dalla Marvel.

Poi Carlà ebbe l’idea di Little Computer People, che doveva essere una rivista fatta da noi, poi avrebbe dovuto essere un gioco, e infine divenne una rivista su Cd. Non so quanta gente l’abbia comprata, perché all’epoca c’era una tale montagna di software, rispetto all’inizio degli anni ‘90, che Little Computer People e altre iniziative similipassarono inosservate. Con l’uscita del Cd, facemmo ristampe dei vecchi titoli, della serie: non si butta via niente.

Avevamo addirittura una linea educativa, fatta da un ragazzo che aveva preparato un programma per insegnare la fisica. Ricordo che aveva un manuale di 400 pagine.

Passare ai giochi da edicola significò anche cominciare a sviluppare adventure...

Sì perché l’adventure permetteva di avere un programma standard per ogni gioco, il che era utile per ottimizzare i tempi, visto che in edicola usciva un gioco al mese. Ci serviva un sistema che fosse riciclabile e veloce: c’erano cose simili in sala giochi – anche se molto più brevi – platform che, ad un certo punto, mettevano il giocatore davanti ad una scelta multipla. Bastava cambiare un po’ gli ambienti e le azioni richieste, ma il grosso del programma rimaneva uguale. La stessa cosa che fece LucasArts facendo uscire montagne di giochi, anche se le trame dei loro titoli erano molto più curate delle nostre.

L’enorme mole di lavoro richiesta dai giochi da edicola portò molti collaboratori a lasciare l’azienda. Quanto pesò questo fatto sul futuro dell’azienda?

Sicuramente fu un duro colpo per l’azienda, ma - per come la vedo io – il momento d’oro era giunto al terminee sarebbe stato difficile proseguire anche se fossimo rimasti tutti lì. In più cambiarono i sistemi e programmare divenne più facile, così che cominciò ad esserci più concorrenza.

All’epoca non potevamo permetterci i computer, che ci venivano inviati da Commodore in conto uso, grazie a Carlà e al suo ruolo da giornalista. Ricordo che Hitachi ci mandò una delle prime videoprinter, che permetteva distampare direttamente le schermate del computer rendendo più semplice preparare le immagini per le pubblicità. Prima bisognava fotografarle con una macchina fotografica ed era piuttosto complicato dato che ci voleva la luce e l’esposizione giusta per evitare che si vedesse la banda muoversi sul monitor. Questi strumenti non erano alla portata di tutti: il C64 costava 350.000 lire, il drive ne costava 400.000, pensa ad averne dieci per poter lavorare in azienda! Ma a metà degli anni „90 cominciarono a diffondersi e ad essere alla portata di tutti. In più arrivarono aziende piùgrosse e con più mezzi.

In quegli stessi anni arrivò Playstation e gli home computer tramontarono...

Esatto. Tra l’altro, ricordo che CTO ci propose di iniziare a sviluppare giochi per Playstation, dato che avevano a disposizione il kit di sviluppo. Ma il kit costava un’enormità (9 o 10 milioni di lire, come un’automobile!) e i giochi andavano approvati da Sony e commercializzati alle sue condizioni: una volta fatto il gioco non si era sicuri che venisse approvato. Software house straniere con più soldi potevano permettersi il kit e, dunque, passarono più velocemente a Playstation. In Italia ci vollero anni prima chequalcuno riuscisse a fare un gioco per Playstation.

Per dare un’idea di come cambiò la situazione, anche CTO fallì ed era il più grande distributore italiano, che aveva l’esclusiva sui giochi Lucas ed Epyx.

Quando decise di lasciare l’azienda?

Attorno al ‘93, quando un amico mi propose di andare con lui a Rimini a gestire una sala giochi. In quegli anni c’era il boom dei flipper e degli arcade come Mortal Kombat e Killer Instinct. Nel 1995 la legge cambiò e furono resi legali i giochi a premio: così le sale giochi cominciarono ad essere sostituite dai videopoker e dalle sale bingo; in più Playstation aveva una qualità superiore a quella dei giochi da sala, mentre in precedenza i giochi da casa non erano all’altezza degli arcade in fatto di audio e grafica. Per questo alcuni giochi da sala cominciarono ad avere al proprio interno delle console, come Killer Instinct, sviluppato da Midway in collaborazione con Nintendo [in realtà fu Rare a sviluppare il gioco, Midway svolse il ruolo di publisher]. Successe la stessa cosa che è avvenuta con il cinema: la gente ha smesso di andare in sala quando ha avuto a disposizione sistemi casalinghi in grado di restituire l’esperienza della sala cinematografica.

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