Appendice III: Intervista a Davide Dardari, programmatore di Italy ‘90 Soccer. Effettuata in data 15/09/2015

Quando è entrato in contatto con Simulmondo? Con quali modalità?

Nell’estate dell’87, per gioco, io e i miei fratelli sviluppammo un gioco sul calcio. Da soli. Non fu una commessa di Simulmondo, che al tempo nemmeno esisteva, anche se c’era ItalVideo, da cui poi nacque Genias. Facemmo il gioco perché appassionati di elettronica; poi io quell’anno iniziai il primo anno di Università e cominciai a far girare questo dischetto, una demo, per far vedere cosa avevo fatto. Nel giro di pochi giorni o di poche settimane questi dischetti – si vede che erano stati duplicati – arrivarono nelle mani contemporaneamente di Carlà e di Riccardo Arioti, che mi chiamarono nella stessa sera, in maniera indipendente, credo, perché ricevetti le due telefonate nel giro di qualche decina di minuti. Mi chiamarono dicendomi che avevano visto la demo e li era piaciuta molto. Così nacque il contatto con la Simulmondo perché dopo qualche mese Carlà e Arioti si misero assieme per creare questa realtà, per poi dividersi un anno dopo. Il gioco era quasi pronto: discutemmo delle condizioni economiche, ci diedero, ovviamente, un feedback artistico per fare alcuni miglioramenti e poi fu messo in commercio.

La mia collaborazione con Simulmondo durò un anno o poco più perché Carlà e Arioti si divisero e io decisi di rimanere con Arioti e Genias, perciò i giochi successivi fatti da me e dai miei fratelli furono fatti per Genias.

Quali erano i termini del vostro accordo con Simulmondo per lo sviluppo del gioco?

Esattamente non ricordo. Se non vado errato un una tantum subito e poi una royalty superate le cinquemila copie vendute. Ma non ricordo se queste fossero le condizioni del secondo videogioco o quelle del primo, comunque erano molto simili. Noi arrivavamo con il gioco quasi pronto dopo mesi di lavoro, a quel punto si trattava solo di accordarsi sulla questione economica. C’è da dire una cosa: all’epoca, rispetto ad adesso, per vendere un videogioco o un qualsiasi software c’era bisogno di tutta una catena di distribuzione.Bisognava appoggiarsi ad un’azienda, in questo caso ItalVideo che era già un importatore di videogiochi, c’era da fare la confezione e tutta la parte pubblicitaria.Quindi era un investimento piuttosto grosso da parte del produttore, figura che adesso non esiste più, almeno per i videogiochi artigianali, perché mi basta caricare il mio gioco su Apple Store e non ho bisogno né di scatole né didistributori, ci pensa Apple a vendere il gioco. io ho un ritorno economico diretto ed è più facile evitare la pirateria. All’epoca la pirateria era tremenda anche perché c’era un vuoto a livello legislativo. La maggior parte delle copie presenti a livello europeo erano copie pirata. Questo è anche il motivo per cui negli accordi economici io e i miei fratelli abbiamo sempre puntato ad avere qualcosa subito e poi le evetuali royalties, perché sapevamo che se si fosse puntato solo sulle royalties avremmo visto poco o niente. E non cisbagliavamo dato che non abbiamo mai visto una royalty (ride).

Quindi non avete mai raggiunto le cinquemila copie previste dall’accordo?

Nì. Nel senso che in giro sapevo che ce n’erano più di diecimila [copie pirata, Ndr], ma io non ho mai visto una lira…

Quando si svolse il Simulmondo Party? Come si svolse la serata?

Ero presente. Ne ho anche una foto che finì su L’Espresso. Ma non ricordo la serata, andiamo troppo indietro nel tempo. Eravamo molti e non ci conoscevamo: a parte un paio di ragazzi che già collaboravano con Carlà nessunaltro si conosceva. C’era chi sviluppava parte della grafica, chi si occupava della musica, ed erano ragazzi che Carlà aveva reclutato in giro per l’Italia così non si erano mai incontrati di persona. Io conobbi personalmente il ragazzo cheaveva sviluppato il primo gioco Simulmondo, Bocce. Ma ho perso i contatti con tutti visto che ho proseguito con Genias a partire dall’89 e poi nel ‘92 ho deciso di abbandonare quello che per me era un secondo lavoro, perché studiavo ed era il mio modo per pagarmi gli studi. Anche se, a distanza di trent’anni i miei fratelli, che hanno un’azienda di sviluppo multimediale nel campo video e computer grafica, hanno resuscitato un paio di questi vecchi giochi e ne hanno fatto una versione moderna, in 3D, per Iphone. L’ha fatto mio fratello un po’ a tempo perso e so che ne ha già distribuite più di 500.000 copie anche se a livello di incasso non ha visto molto perché sono spesso versioni free. Però è un bel risultato, vuol dire che è piaciuto nonostante sia un gioco vintage.

Come si è svolta la lavorazione del vostro primo gioco, Italy ‘90 Soccer?

È nato per gioco. A differenza del lavoro che si fa oggi, sia per i videogiochi sia per gli applicativi, si parte da una serie di strumenti, come il motore grafico, già inclusi nel sistema operativo. Oggigiorno il grosso del lavoro dello sviluppatore si fa sulla grafica e sull’intelligenza di gioco, ma l’animazione e la visualizzazione 3D viene svolta dal sistema operativo, quindi si parte da un livello già molto alto di estrazione rispetto al dispositivo. All’epoca ladifficoltà più grande era la mancanza di questi strumenti: bisognava partire da zero, dal bit. Bisognava conoscere profondamente il sistema della macchina e come funzionava l’hardware. Quindi svilupparsi tutte le funzioni da accendere il singolo pixel ad animare degli oggetti. Poi si passava a sviluppare la grafica e l’intelligenza. Il tutto su una macchina con 6 Megaherzt di clock (non i Giga di adesso) e con poca memoria, perciò bisognava ottimizzare il tutto per renderlo veloce – limitatamente alle risorse computazionali della macchina – e che stesse in una memoria di 500k, anzi addirittura meno, perché la Ram era di 256k. Questo significava dover scrivere il codice in maniera veramente efficiente, limare su tutto e addirittura scrivere alcune parti in linguaggio macchina, quindi non linguaggio di alto livello, ma numerico. Oggi è chiaro che, con l’hardware che si ha a disposizione, queste difficoltà si sentano meno.

Un’altra difficoltà, sempre facendo un paragone con oggi è il fattk che oggi, se uno non sa una cosa va su Google, se non capisce come funziona una parte della macchina ci sarà un forum su Google dove qualcuno spiega come risolvere il problema, si trova la risposta in pochi minuti. All’epoca non c’era niente, bisognava ordinare il manuale di istruzioni della macchina dagli Stati Uniti, che tardava due mesi ad arrivare, poi studiarselo tutto dall’inizio alla fine e se c’era un problema bisognava risolverlo da soli.

Programmavate su Amiga, giusto?

Sì.

Il gioco era in 3D o bidimensionale?

Era un finto 3D. Il motore era 3D, quindi calcolava per il 3D ma il risultato finale era in 2D. Il programma simulava il movimento della palla pensando in 3D.

Uno dei problemi dei giochi di calcio dell’epoca era quello di mostrare tutti i 22 giocatori assieme sullo schermo. Come avete risolto?

C’è tutto un lavoro di ottimizzazione, come dicevo prima, far fare alla macchina meno lavoro possibile e, se necessario, barare un po’. I giocatori erano ventidue quando le squadre scendevano in campo e si vedeva che la macchina rallentava, ma quando si giocava la partita non si vedevano tutti perché la visuale scorreva, dunque già i due portieri non erano mai assieme nella stessa schermata. Era tutto un lavoro di ottimizzazione: nel gioco c’erano anche le ombre dei giocatori, l’importante era individuare i colli di bottiglia del codice, i punto di rallentamento dell’esecuzione, e capire come risolverli. Se proprio non si riusciva bisognava ricorrere all’assembler, il linguaggio macchina. E infatti una buona parte del gioco era scritta in linguaggio macchina, per usare il quale bisogna conoscere vita morte e miracoli della macchina. Io non gioco mai ai videogiochi, sono completamente negato; a me affascinava di più la creazione, usare l’intelligenza del computer, ma non giocavo quasi mai ai videogiochi, quindi l’esperto era mio fratello Francesco che mi diceva quello che il programma avrebbe dovuto fare. I nostri giochi non erano pensati per l’utente di basso livello, quello a cui interessa solo muovere il joystick, qulacosa si muove sullo schermo e lui si diverte. Lui aveva in mente un giocatore che, tramite mosse ben congegnate riesca a far fare cose complesse al gioco: si poteva fare la rovesciata, ma bisognava trovare la giusta combinazione. Non bastava schiacciare un tasto perché il computer si inventasse le mosse. Quello era il punto di forza e forse anche il punto debole di quei giochi, perché attirava chi volesse padroneggiare la macchina e allontanava chi voleva qualcosa di più semplice.

Per quali motivi Arioti e Carlà si divisero? Come mai lei decise di trasferirsi a Genias?

Non ricordo per quale motivo si siano divisi, forse non l’ho mai saputo. Decisi di passare a Genias dopo una discussione con Carlà durante una fiera a Milano, forse lo SMAU. Era uno stand che ebbe un certo successo, c’erano un sacco di ragazzi, perché davamo la possibilità di sfidare i programmatori sui loro giochi. Naturalmente giocava mio fratello perché io son negato (ride). In questa occasione presentammo la demo di un gioco sul beach volley, Over the Net, che stavamo sviluppando ed era già al 90%. La rottura avvenne sulle trattative per questo gioco: noi avevamodelle aspettative ma Carlà non era dello stesso parere. Arioti, invece, ci fece un’offerta migliore, così scegliemmo Genias.

Genias aveva un modo di lavorare diverso: Simulmondo aveva molti input da parte di Carlà, che era un visionario, spesso molto più avanti di quello che la tecnologia poteva produrre in quel momento; mentre Geniasdiceva: “pensiamo che il gioco sull’automobilismo possa essere un gioco vincente: fate il gioco.” Poi noi lo progettavamo da zero; dopo sei mesi il gioco era finito, completamente progettato da noi, poi arrivavamo alla Genias, portavamo loro il gioco e dicevamo: “trattiamo.” Simulmondo era diverso perché Carla dava le idee per il gioco e ledirettive di produzione (ad esempio, fare un gioco in 3D con un certo punto di vista, ecc.). Con noi però non ha lavorato così, perché nella nostra unica collaborazione con Simulmondo il gioco era già pronto quando l’abbiamo presentato. Sicuramente lui era abbastanza avanti per l’epoca.

Un altro dei motivi per cui decidemmo di andare a Genias era il fatto che avesse alle spalle una rete di distribuzione, che Simulmondo ancora non aveva.A livello economico era una scommessa far uscire un gioco: bisognava investire nello sviluppatore, nelle confezioni, nella pubblicità, con il rischio di vendere poche copie, non tanto perché il videogioco non era piaciuto ma perché veniva piratato. In Italy ‘90 mettemmo una chiavetta come misura antipirateria: veniva venduta con il gioco e bisognava inserirla nel computer per far funzionare il programma. Però i pirati riuscirono a copiarlo lo stesso.

In ogni caso non ho mai avuto contatto diretto con la produzione perché abbiamo lavorato sempre da esterni, limitandoci a portare il prodotto finito.

Quinidi anche Over the Net era un progetto nato da una vostra idea?

No. L’idea era di Simulmondo, quando Carlà e Arioti lavoravano ancora assieme. Decisero che, dopo il calcio, poteva funzionare il beach volley. Poi, quando il gioco era quasi finito, non fummo d’accordo sull’aspetto economico. Ricevemmo qualche input iniziale ma poi sviluppammo interamente il progetto, anche perché era jn po’ il nostro marchio di fabbrica occuparci dell’intero gioco.

Quanto tempo impiegavate a sviluppare un gioco dall’inizio alla fine?

Dipende da quanto si riusciva a riciclare dal gioco precedente. Passare dal calcio al beach volley non è molto diverso, hanno meccaniche differenti ma sostanzialmente sono sempre omini da muovere. Per il gioco successivo sulla Formula 1 [WarmUp, di Genias] abbiamo usato tecniche abbastanza innovative per muovere le macchine e la pista. Dunque il gioco più veloce in assoluto fu quello sul beach volley. Poi abbiamo fatto un altro calcio e qui ci ha aiutati l’esperienza precedente. Parliamo, in media, di sei-otto mesi di lavoro, a volte anche dieci. Lavoravamo nel tempo libero, perché studiavamo. Io mi occupavo di programmazione e i miei fratelli di grafica statica e dinamica.

Avevamo anche provato a sviluppare su Commodore [64], un gioco sulle olimpiadi nell’antica Grecia, con la ricostruzione di Atene e dei vari giochi. Ma il progetto non fu mai completato.

Perché vi occupavate solo di giochi sportivi?

Ci piacevano i giochi sportivi (ride). Colpa di mio fratello: è a lui che piaceva giocare!

Quali sono, a suo parere, le principali differenze tra il mercato di allora e quello di oggi?

Dato che all’epoca c’erano solo aziende medio-piccole noi riuscivamo a competere con Electronic Arts o altreaziende che oggi sono colossi, lavorando dal garage di casa. Oggi a meno che non si facciano giochi molto semplici, se si vuole fare un gioco di calcio come FIFA serve un team di almeno 50 persone e budget milionari. Perché si punta molto sulla ricchezza della grafica e non si può farlo in tre. L’unico modo per poter lavorare in piccolo oggi è avere un’idea giusta, come successo per Angry Birds.

Poi le piattaforme di digital delivery eliminano il distributore che trent’anni fa era fondamentale. Oggi ilprodotto può essere commercializzato con un tasto e costa poco, perché può saltare diversi passaggi nella catena produttiva. Prima il costo lievitava per le spese per produrre la scatola, distribuire il prodotto e venderlo nei negozi. Ora il guadagno si fa sui grandi numeri: se vendo 10.000 copie ad 1€ guadagno 10.000€. Ed è facile arrivarci perché si può vendere facilmente a tutto il mondo. All’epoca 10.000 copie era il massimo che si poteva vendere, senza dimenticare il fatto che, vendendo 10.000 copie originali, comunque ne circolavano 100.000 pirata.

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