Appendice II: Intervista a Francesco Carlà, fondatore di Simulmondo. Effettuata in data 10/09/2015

Partiamo dal principio: come è nata Simulmondo? Quale idea vi è alla sua base? 

L’idea di Simulmondo mi è venuta all’inizio degli anni ‘80, quando facevo il giornalista di videogiochi mentre studiavo al DAMS di Bologna. Scrivevo su un numero imprecisato di riviste di videogiochi, da quelle che si occupavano nello specifico di videogiochi, come Computer Games e Videogiochi, a quelle di computer in cui curavo le rubriche sui videogiochi. La prima fu “Computer Fantasy” su Micro e Personal Computer, una delle due grandi riviste dell’epoca, poi mi chiesero di fare la stessa cosa quelli di MC Microcomputer, che era la più importante, e io, non potendomi portare dietro il titolo di “Computer Fantasy”, chiamai la mia rubrica “Playworld”. Questa mia sezione andò avanti addirittura dal 1985 a dopo il 2000. Era composta da molte pagine al mese con un taglio inusuale che vede i videogiochi come creazioni artistiche e pionieri del nuovo modo di fare comunicazione ed entertainment che si sarebbe verificato, secondo me, e avrebbe sconfinato anche in altri campi: una visione profetico-fantascientifica che, però, aveva le sue basi molto forti da un punto di vista tecnologico, del pubblico che si stava formando e delle capacità comunicative che questostava acquisendo, anche grazie ai videogiochi. Almeno secondo me, visto che dagli anni ‘70 c’era chi vedeva nella nascita di videogiochi l’ennesimo passatempo come il cubo di Rubik o il Monopoli.

Tutto questo per dire che l’idea di occuparmi full time di vidogiochi mi è venuta molto presto, negli anni ‘70, e per molto tempo l’idea era legata allo studio dei videogiochi e della loro storia anche se avevano solo pochi anni di vita. Studioso e divulgatore con l’idea che i videogiochi fossero una nuova arte e che avessero al loro interno tutto il necessario per essere considerati tali. Ma soprattutto che avessero davanti un futuro enorme e io volevo essere parte di questo futuro, non solo come studioso ma anche come produttore. Una cose comune nel cinema se si pensa a quei registi che vengono dal giornalismo come Truffaut e gli altri autori della Nouvelle Vague. L’altra mia idea, infatti era mescolare tutte le mie passioni - cinema, musica, letteratura - in questa nuova forma d’arte.

Tuttavia lo scenario attorno non era dei più confortevoli: all’inizio degli anni ‘80, appena arrivato a Bologna, avevo preso contatto con gli Zaccaria di Calderara di Reno, curiosa famiglia di imprenditori che aveva approfittato della legge che bandiva i flipper americani considerando una scommessa il fatto che consentissero di ripetere la partita. Quindi gli Zaccaria si misero, molto intelligentemente, a modificare i flipper americani per adeguarli alla legge italiana. A seguito di questo cominciarono a produrre i propri flipper, ottenendo un certo successo in Europa, dove una legislazione simile bloccava l’importazione di prodotti americani. Quando uscirono i videogiochi, gli Zaccaria pensarono di produrre videogiochi, ma nessuno di grande qualità; i giochi arcade del periodo avevano costi di produzione altissimi per il mercato italiano, se si considera che i giochi di grande successo dell’Atari vendevano diecimila pezzi nel mondo, anche se avevano la sicurezza del marchio Atari e potevano godere di una distribuzione globale. Ciò era dovuto alla pirateria (si piratava la scheda del gioco originale e la si inseriva in una cabina anonima) che dava problemi ad Atari, figuriamoci a Zaccaria.

Mi resi conto che il mercato arcade non era la soluzione e decisi di rivolgermi agli home computer, che all’inizio degli anni ‘80 si riducevano, per le tasche degli italiani, al Vic 20 e ad altri come lo Spectrum e il Texas Instrument TI 99-4a che non aveva la possibilità di salvare e “scordava” tutto quello che si era fatto quando veniva spento. Ad un certo punto, all’inizio del 1987, pubblicai il famoso trafiletto su MC Microcomputer: “Simulmondo Wants You”.

La parola Simulmondo mi venne una notte a Londra mentre cercavo un termine che riasssumesse tutte le mie idee sui videogiochi. Nel frattempo viaggiavo all’estero ed entravo in contatto con le case di produzione americane e giapponesi, inoltre ero stato assunto da Panorama per curare una rubrica sui videogiochi, una cosa enorme vista la grande tiratura settimanale della rivista. Poi avrei scritto su altre testate nazionali: io sono un po’ “contagioso” e quando parlavo con le persone riuscivo a convincerle della validità delle mie idee. Quando coniai il termine Simulmondo erano da poco usciti i romanzi di William Gibson che chiamava la stessa cosa Cyberspace e poco dopo arrivò il kit con caschetto di Jaron Lanier che la definiva Virtual Reality. Tra i tre termini il mio fu il più infelice come successo (ride).

Qui arriviamo all’inizio della storia, perché quel trafiletto - che pensavo avrebbe ricevuto tre lettere - ricevette una valanga di lettere, tra appassionati, gente che voleva scrivere la sceneggiatura dei videogiochi, gente che voleva fare la musica. Centinaia e centinaia di persone che, a vario titolo e con varie capacità, avevano voglia di fare videogiochi e dicevano che era ora, che l’Italia era vissuta sempre e solo di pirateria (one on one e organizzata, c’erano persone che pubblicavano videogiochi altrui a proprio nome). In questo periodo mi contattò un’azienda di Castenaso, la Armati, che faceva videogiochi del Commodore 64. Loro dicevano di essere in una fase turbinosa, di non avere idiritti, e si erano rivolti a me come esperto del tema per aiutarli a passare dalla pirateria alla produzione legale. Io, però, volevo fare la mia azienda e proposi al figlio del proprietario, Riccardo Arioti, di acquistarne una quota di minoranza. Le componenti dell’azienda erano tante e io ne controllavo parecchie – la conoscenza dei videogiochi e i contatti nel mondo dei media attraverso i quali potevo fare comunicazione – ma non avevo una grossa esperienza commerciale (anche se ero figlio di imprenditori) e avevo 26 anni, perciò loro [gli Arioti, ndr] potevano garantirmi una certa credibilità anche facciale di fronte ai distributori. Loro facevano duplicazione, indispensabile per produrre giochi, e avevano agenti con cui vendevano nei negozi. All’epoca i videogiochi si vendevano in negozi specializzati, che perlopiù vendevano titoli pirata; ma c’era anche chi vendeva giochi originali, il più famoso era Pergioco di Milano, che vendeva giochi importati direttamente dall’estero, nei quali gioco e manuale erano in lingua originale. Il C64 è padrone assoluto dello scenario, ma è già arrivato l’Amiga che ha scioccato un po’tutti per la qualità di grafica e sonoro.

Simulmondo nasce così, come società di cui io detengo la maggioranza e Arioti una minima parte. Tuttavia non andiamo d’accordo fin da subito - non dal punto di vista umano Riccardo è un’ottima persona – ma perché la loro volontà di proseguire a fare giochi “non ufficiali” (per usare un eufemismo) e la mia volontà di produrre giochi originali fa sì che ognuno vada per la sua strada nel giro di pochi mesi. Assieme pubblicammo i primi tre giochi: Italy ‘90 Soccer, Bowls e Simulgolf. Italy ‘90 Soccer è l’unico a riportare sulla confezione il marchio ItalVideo, con cui gli Arioti duplicavano e distribuivano i titoli originali, mentre Armati era il marchio legato a quelli pirata. Poi io comprai la quota di Arioti perché avevo idee molto più ampie e veloci, in quanto sapevo che il timing sarebbe stato fondamentale per lo sviluppo di Simulmondo.

Quando nacque ufficialmente Simulmondo?

Per le date ufficiali bisogna ricorrere ai documenti. Un po’ come per i pittori del „200 e del „400 per cui si va a cercare l’atto di battesimo. Perciò andammo dal notaio Bonoli (mi pare) e registrammo la società.

Ma secondo me la vera nascita di Simulmondo è la pubblicazione del trafiletto con cui ottenemmo una risposta oceanica e conoscemmo i vari collaboratori. Collaboravo già da prima con Ivan Venturi, Federico Croci e Arioti, che non era però un creativo. Dopo il trafiletto arrivarono gli altri: Cangini, Bruscella, ecc.

Da lì in poi su “Playworld” feci la cronaca passo passo dei progressi dell’azienda. Molti lo videro come unconflitto di interessi, ma io mi misi d’accordo con il direttore di MC, il mio caro amico Marco Marinacci, e gli dissi: “siamo l’unica azienda italiana. Uno si piglia il fastidione, con la pirateria che c’è, di mettere in piedi una propria produzione e non ne può parlare sulla sua rubrica? È ridicolo. Si può fare il disclosure dicendo di essere il produttore e poi parlarne quanto si pare: giudicherà la gente se i vidogiochi sono buoni o brutti.” E questa linea passò.

Da dove provenivano i fondi per far nascere Simulmondo e per sostenerne la produzione?

Sono figlio di imprenditori. Poi avevo già lavorato molti anni come giornalista: dai tempi di Rockstar nell’81, che fu la prima rivista italiana a parlare di videogiochi ed era popolarissima nella mia generazione vendendo 200.000 copie al mese, oltre ad essere la palestra di moltissimi giornalisti che sarebbero diventati famosi. Parlava di musica, al massimo di cinema, e io convinsi il direttore Peppe Videtti ad affidarmi una rubrica per i videogiochi. All’epoca i giornalisti guadagnavano molto bene: la rubrica su Rockstar mi rendeva 500.000 lire al mese da sola.Per rendere l’ideaio pagavo 60.000 lire al mese d’affitto. E scrivevo su decine di riviste ogni mese.

Quel tipo di azienda non era capital intensive, non aveva gran bisogno di capitale: si trattava di reclutare imigliori, avere delle idee e produrre come una casa editrice o una casa di produzione cinematografica. Un po’ come fa Bonelli: tu ispiri una sceneggiatura, dai un’idea, decidi quale team la deve sviluppare. Gestire un po’ tutta la produzione dando anche degli acconti e dare il resto quando il prodotto è uscito sul mercato. Ovviamente bisogna avere anche una struttura fissa, ma era leggera, minima e assolutamente non onerosa. Un po’ il modello dei cartoni animati Hanna&Barbera o Walt Disney in cui un produttore ispira tutto e mette i soldi, poi mette assieme un teamcredibile per quell’operazione, che viene confermato in caso di successo. Se non ha successo il team si scioglie e viene spalmato su altre operazioni.

È un modello che non richiede molto capitale, specialmente se riesci a far funzionare la distribuzione come un canale di finanziamento anticipato, come nel cinema, in cui i distributori danno un anticipo per la realizzazione del film perché sanno che si rifaranno al botteghino. Simulmondo è stata profittevole dal primo minuto anche perché Italy ‘90 Soccer per C64 fu un successo strepitoso, vendette 50.000 copie, quota impensabile per un gioco originale e che nemmeno i giochi piratati riuscivano a raggiungere. Lì ci fu anche un ottimo tempismo da parte mia perché fu fatto uscire due anni prima del mondiale, nell’autunno ‘88 e funzionò per tutto l’89 e il ‘90 perché sembrava sempre nuovo.Vendette tanto e a lungo, cosa molto importante perché i costi per fabbricarlo sono fissi, una volta pareggiati i costi di produzione le copie vendute costituiscono guadagno netto, che si può investire in nuovi giochi.

Quanto costava produrre un gioco?

In lire dell’epoca erano 40 milioni, quindi 20.000 euro. Rapportati ad oggi direi che equivalgano a circa 100.000 euro, ma sto calcolando a spanne. 100.000 euro comprensivi di sviluppo, duplicazione, marketing e pubblicità.

Infatti, un’altra idea di Simulmondo fu quella di comunicare; perché puoi fare il gioco più bello del mondo maè inutile senessuno lo conosce. Ad esempio, F1 Manager nacque con l’idea di rifare Football Manager applicandolo alla Formula 1 (e i suoi meccanismi piacciono ancora visto quanti mi scrivono su Facebook). Il gioco originale vendette più di 50.000 copie – un successo visto che i giochi originali si vendevano cari – e attirò l’attenzione di una delle più importanti riviste di automobilismo di Bologna, Rombo, creata da Marcello Sabatini, e che diede una mano incredibile nel marketing di F1 Manger, addirittura organizzando una presentazione al Gran Premio di Monza con tutti i piloti dell’epoca. C’era anche Montezemolo, il capo della Ferrari, con la Fenech, tutto gratis. Senza spendere una lira. Tutto per simpatia e per l’entusiasmo contagioso che, come dicevo prima, gli avevo trasmesso. Ebbe un’eco enorme sui giornali e piacque anche ai piloti che ci fecero da testimonial gratis, cosa oggi impensabile considerando i milioni che si spendono per quelli che appaiono sulle copertine di FIFA o PES.

Qui c’erano già tutte le componenti di Simulmondo: un gioco che andasse oltre il gioco; entertainment e simulazione, cioè dare alla gente l’esperienza della cosa vera. A tal proposito ho in mente da tempo l’idea di fare ungioco di calcio in “soggettiva”, ma aspetto di avere il team giusto. Abbiamo già tutto in set: avevamo una sede grande in cui stavano i ragazzi. Io per anni ho dovuto fare l’agente immobiliare, affittando interi stabili in cui far stare iragazzi, perché non volevo si preoccupassero di questioni logistiche e pensassero solo a fare ciò che gli piaceva, fare videogiochi. I ragazzi erano tanti, provenienti da tutta Italia e avevano capacità di fare cose che, ad oggi, sembrano incredibili come far funzionare i computer in linguaggio macchina, senza linguaggi interpretativi, per far andare più veloce il computer. Tutti i profitti vengono reinvestiti nell’azienda. In più ho un’idea di marketing ben precisa: simulare solo un certo tipo di sport, essere in collegamento con le principali testate sportive e l’idea fortissima ditrasmettere le emozioni dell’esperienza reale. In più la forza del videogioco italiano, cioè dare all’Italia, che –sebbene vi circolassero in gran parte giochi pirata - era il terzo mercato d’Europa, dopo Inghilterra e Germania, al pari della Francia come quantitativo di utenti. Volevamo fare videogiochi che avessero audio, testi e manuali in italiano. Oltre a ciò noi avevamo il vantaggio di poterci concentrare su un unico computer: in Inghilterra andava forte lo Spectrum, in Francia si usava l’Amstrad, l’Atari [ST] e pochissimo il Commodore 64, in Germania l’Amstrad, che costava molto poco, mentre in Italia c’era solo il Commodore 64. Quindi era più facile produrre e i games venivano meglio, visto che erano fatti apposta per quello. In più i nostri erano gli unici giochi originali in Italia, gli altri erano importati dall’estero così com’erano.

Ma io avevo in mente di cominciare a sfruttare l’Amiga: l’Amiga sta al Commodore 64 come il cinema muto e in bianco e nero sta al cinema a colori sonoro. Per fare ciò metto assieme un team - che io considero il “Super Team” - composto da Riccardo Cangini, Mario Bruscella e me stesso, per fare una game rivoluzionario. All’inizio degli anni ‘90. Le prime volte che ne parlai con loro ricordo che erano molto scettici: “Come facciamo a fare un gioco di calcio in soggettiva con 22 giocatori?”. Infatti i giochi di calcio dell’epoca riducevano il numero di giocatori, perché la velocità dell’hardware non riusciva a supportarli: uno dei giochi di calcio di maggior successo dell’era 8 bit,International Soccer, in realtà è un gioco di calcetto, perché ha solo 5 giocatori. Io volevo tutti i giocatori, con i numeri sulle maglie.Volevo il fuorigioco, il gioco aereo: volevo tutto. Ho sempre pensato che bisogna volere tutto, se ci si accontenta di meno si finisce per non avere niente, perché si finisce per andare sempre al ribasso. E avevo già il titolo: I play: 3D Soccer. Un’assonanza con Iphone, vent’anni prima.

Per avere tutte queste cose, per avere le emozioni di una vera partita di calcio, spingevo Marco Bruscella a far andare al limite le possibilità dell’Amiga. I ragazzi erano piuttosto scettici ma io li motivai molto: “Volete vedere che se lo completiamo questo sarà il gioco di Simulmondo che passerà alla Storia?”. Così Riccardo disegnò tutti gli sprites, dato che non potevi fare come oggi i poligoni e poi mapparli, così che si muovano in qulunque direzione essendo poligoni, vettori solidi. All’epoca l’Amiga non sarebbe riuscito ad andare abbastanza veloce con tutti quei poligoni, perciò l’idea era di disegnare tutte le posizioni possibili; così non ti accorgi che i giocatori sono bidimensionali ed è tutto il resto ad essere in 3D. I giocatori sono ventidue, tu puoi essere qualunque giocatore, compreso il portiere. Puoi fare tutto quello che puoi fare in una partita di calcio.

Questo gioco ebbe un grande successo all’estero. Anche F1 Manager aveva avuto un grande successo inGermania, ma I play: 3D Soccer sconvolse le riviste inglesi, che erano quelle che ti consacravano a livello europeo. Ricevemmo grandi recensioni e senza comprare pagine pubblicitarie, cosa che garantiva voti più alti anche a giochi mediocri.

In quegli anni la pirateria era il nostro più grande nemico ed il nostro più grande sponsor, perché metteva a disposizione di chiunque qualsiasi tipo di gioco: così tutti gli appassionati di calcio con un Amiga provarono I play: 3D Soccer, permettendo a Simulmondo di farsi un nome in tutta Europa, mentre l’America rimase lontana perché poco interessata al calcio. A proposito di pirateria eravamo diventati bravissimi a fare le protezioni e per I play: 3D Soccer ne inaugurammo una leggendaria per cui i controlli erano sparsi in tutte le partite e diventava un incubo per i crackers. L’idea era che i giocatori non volessero fare una sola partita, ma lunghi campionati e tornei, perciò abbiamo infilato i controlli in minuti diversi, in diverse partite. Perciò se stavi facendo un campionato di trovavi il gioco bloccato perché il pirata non si era accorto che c’era un altro controllo e un altro controllo ancora. Perciò si difese molto bene dalla pirateria, ma facemmo una cosa un po’ sciocca (ride), che fui io a proporre: quando il programma siaccorgeva che si stava usando una copia pirata, i giocatori si fermavano, andavano a centrocampo e componevano la scritta “Fuck Off”. E questa cosa non piacque ai pirati, che si accanirono sul gioco, visto che per la prima volta eravamo stati noi a mandare a quel paese loro.

Questo gioco ci permise di guadagnare in fretta il tempo perduto rispetto alle altre software house inglesi e francesi, partite anni prima di noi. Siamo in grado di offrire prodotti di qualità sul mercato 8 bit e su Amiga e di presentarci alle fiere alla pari delle società straniere che si concentrano sugli home computer.

Com’era la politica dei prezzi di Simulmondo?

Sostanzialmente identica allo standard europeo: se non ricordo male 20.000 lire per gli 8 bit in cassetta, 25.000 su floppy.

Come era organizzata la distribuzione di Simulmondo verso l’estero?

In Italia è tutto già perfettamente organizzato: distribuiamo direttamente nei più grandi negozi, come Pergioco di Milano che compra centinaia di copie di ogni game, o Sterlino a Bologna. Un negozio del genere poteva vendere dasolo migliaia di copie, aveva letteralmente delle pile di giochi. Pergioco aveva diversi punti vendita e aveva puntato da subito sui giochi originali, così tutti quelli che volevano i giochi originali andavano da loro. Poi abbiamo i nostri agenti che vendono in tanti piccoli negozietti e in alcune edicole. In più vendiamo nei supermercati e nei centri commerciali, che cominciano a nascere in quel periodo.

All’estero abbiamo varie soluzioni: in Inghilterra, Francia, Germania e Spagna usavamo altri publisher come Ubisoft con cui facemmo un ottimo lavoro. In Inghilterra c’era Impressions, molto famosa all’epoca per i suoi titoli role-playing e simulativi, di cui non credo sia rimasta particolare traccia. In paesi più piccoli vendiamo la licenza di produrre, come in Grecia e nell’est europeo, pagavano una quota fissa per produrre il gioco e una royalty se si eccedeva un certo quantitativo di copie vendute. Andiamo molto forte nei paesi scandinavi e abbiamo un publisher anche in Israele. Tuttavia , non abbiamo titoli interessanti per gli Americani, il cui mercato degli home computer erapiuttosto asfittico e particolarmente interessato a War Games, Role-playing e adventures.

Un altro atto importante per la nascita dell’azienda fu il Simulmondo Party…

 Yes…Era il mio modo per fare uno screening veloce delle centinaia di lettere che mi erano arrivate con il trafiletto di MC. Una prima scrematura era stata fatta grazie ai dischetti che l’annuncio chiedeva di inviare come prova delle proprie capacità, molti furono scartati perché non raggiungevano lo standard di qualità che io avevo in mente. Ne restarono ancora decine che furono invitati alla festa nel salone enorme di Viale Berti Pichat. Durante la serata firmarono i contratti per i giochi che avevo già in mente di fare.

Già in questa sede si era parlato di fare degli adventures…

C’era un ragazzo molto bravo nella grafica che ha disegnato il primo marchio di Siulmondo, la cui prima versione fu uno schizzo di Massimo Iosa Ghini, oggi uno dei più grandi architetti e designer italiani, che fece basandosi su una mia idea e che usammo per i primi tre giochi. Con questo ragazzo rifacemmo il logo al computer e cominciammo a lavorare su Rimini, mare azzurro, un adventure ambientata a Rimini; coinvolsi Croci per scrivere lasceneggiatura, ma non se ne fece mai niente perché non ero convinto del potenziale commerciale. Visto che i primi tre games non potevano sbagliare uno doveva essere per forza calcio. Inoltre un adventure aveva senso solo su Amiga e altempo non lo consideravamo una piattaforma credibile perché ancora poco diffuso. Il progetto è stato messo nel cassetto e non ne è mai uscito, come succede in questi casi, anche se un pochino è finito dentro Italian Night per l’idea di lasciar perdere le solite ambientazioni - Los Angeles, Shangai, New York – e provare a farlo in una città italiana.

Come erano considerati i videogiochi dall’opinione pubblica dell’epoca? Consideriamo che alla fine degli anni ’80 ci fu la polemica sui videogiochi nazisti…

Ogni epoca ha il suo prodotto messo sotto accusa: le strips negli anni ‘20, il cinema di genere, i fumetti, con Diabolik che ebbe l’onore di diverse interrogazioni parlamentari, i cartoni animati e, infine, i videogiochi. Io mi scagliai violentemente contro questa idea, considerando il fatto che questi giochi nazisti erano robetta amatoriale fatta da alcuni stupidi. Per polemizzare non si usavano le immagini di questi giochi ma quelle tratte da un gioco molto bello di Cinemaware, Rocket Ranger, che non c’entrava niente con i nazisti. Era invece un gioco con un’idea molto intelligente: simulare il mondo dopo la vittoria dei nazisti. Per quello c’erano le svastiche; è come fare un film sul nazismo senza far vedere le svastiche.

Questa polemica attirò il più grande architetto italiano di quegli anni, Ettore Sottssass, che mi propose diparlare di videogiochi sulla sua rivista. In quegli anni la mia carriera giornalistica era decollata e facevo unatrasmissione chiamata Obladì Obladà in cui avevo una rubrica, “Microclips”, in cui montavo spezzoni divideogiochi facendo dei cartoni animati, una specie di Blob del videogame. L’idea era mostrare l’interazione: dovevospiegare alla maggior parte delle persone che non era un cartone animato, che ero io che muovevo ciò che succedevaall’interno. Una cosa stranissima, a pensarci oggi, doverlo ricordare ogni volta!

La rivista di Sottssass si chiamava Terrazzo, una rivista cult. Nell’articolo usai per la prima volta l’espressione interactive design. Scrivere su quell’articolo fu un enorme pubblicità, visto il prestigio della rivista, e una serie di ambienti fino a quel momento refrattari al videogame si aprirono a queste idee, attirando interviste da tutto il mondo e permettedomi di scrivere su riviste che non mi sarei mai immaginato, come Domus, un emblema del design italiano.

Design italiano a cui Simulmondo ha sempre guardato…

Il mio progetto successivo voleva concentrarsi proprio sulla Storia d’Italia. Visto che abbiamo una distribuzione europea, potenzialmente mondiale; che i giapponesi ci chiedono i giochi alle fiere e non ne abbiamo, perché volevano giochi per i loro formati: MSX, NES, SNES, Game Boy e SEGA Mega Drive. Perciò decido di fare un gioco sulla Mille Miglia e vado a Brescia, il cui Automobile Club detiene i diritti della corsa e tutta la documentazione che ci permette di dare precisione storica al gioco. Ma ci voleva dell’altro, cioè le automobiline e perciò vado alla Burago, probabilmente il più grande produttore al mondo di automobiline, per avere i modelli per lemacchine da inserire nel gioco e, gia che ci sono, ci mettiamo d’accordo per una bella campagna di marketing abbinata alle automobiline, inserire i cataloghi Burago nelle nostre scatole, insomma farci pubblicità a vicenda.

A questo punto metto assieme il team: l’Amiga era diventato il computer numero uno, e il PC stava acquisendo sempre più popolarità, essendo arrivata la scheda VGA che ovviava ad una scheda grafica a 4 colori, peraltro assurdicome viola e verde. Viene fuori un bel game di simulazione di corsa su strada (mentre finora avevamo fatto solo titolisu pista), come era la Mille Miglia negli anni ‘30, finché non fu interrotta per un mega incidente con un sacco di mortinel dopoguerra. Era una corsa mitica: vi parteciparono alcuni dei più grandi campioni di sempre come Nuvolari, le automobili che hanno fatto la storia dalle Alfa e le Ferrari alle Jaguar e alle Mercedes. Dunque era un gioco paneuropeo perché utilizzava macchine di tutti i paesi in cui distribuivamo, e poteva appassionare anche giapponesi e americani perché c’erano automobili che piacevano loro. Il team era ottimo con una grafica stupenda, grazie al lavoro di Mario Savoia che fece grafica e programmazione con la stessa, altissima qualità. I menù sono stupendi, secondo me, realizzati da Michele Sanguinetti, uno dei migliori grafici che abbiamo mai avuto. Anche la Ferrari apprezzò, ci fece pubblicità e ci procurò moltissimi sponsor. La scatola del gioco era bellissima, la più bella di tutte, disegnata da un artwork di Ravenna di cui non ricordo il nome, purtroppo. A proposito di copertine, tutti i nostri giochi di calcioriproducono sulla confezione la famosa rovesciata della Panini: c’era in Italy ‘90 e la feci rifare a Iosa Ghini per I play: 3 D Soccer.

Millemiglia doveva essere una serie, giusto?

Esatto. Ma non lo divenne perché nel frattempo avevo avuto l’idea dei videogiochi brevi, dei serial, e tutte le nostre forze produttive vennero impiegate su quel progetto. Allora finimmo la serie I play con Football Champ, versione manageriale di 3D Soccer, e 3D World Soccer, il seguito del primo gioco. Più altri giochi come 3D WorldBoxing e 3D World Tennis. E infine ci concentrammo tutti sui nuovi giochi. Io penso di aver avuto due grandi idee in vita mia: il calcio in soggettiva e questa delle serie, cioè come True Detective rispetto a Seven, da una parte il game chegiocavi in un’unica soluzione, mentre dall’altra non c’erano giochi fatti come una serie. E io li volevo fare, ispirandomi ai fumetti come Tex, che esauriva un arco narrativo in tre puntate, mentre Diabolik aveva storie autoconclusive.

Facemmo una mega riunione con un sacco di gente dove esposi l’idea dei giochi a puntate e dissi di volere un tool, cioè un software specifico per farli, senza crearne uno per ogni gioco come si era fatto finora. Dentro doveva esserci un po’ di tutto: un po’ di arcade, un po’ di dialoghi, un po’ di “punta e clicca” per non scontentare nessuno. Almomento non dissi due cose: dove li avremmo distribuiti e quali personaggi avevo, per sentire cosa ne pensavano i ragazzi. A questo punto annunciai di avere Dylan Dog e Diabolik.All’epoca Dylan Dog vendeva un milione di copie e non c’era nessuno che non ne fosse preso, compresi i miei collaboratori. Mi avrebbero pagato pur di lavorarci. Mentre Diabolik voleva colpire il pubblico più vintage…

Chi era il “giocatore tipo” dell’epoca?

Il giocatore tipo andava dal bambino super evoluto con genitori super evoluti che gli compravano il computer, quindi minimo otto anni; i genitori compravano il computer anche perche dava loro l’idea che il figlio potesse imparare ad usarlo, diventare una specie di genio dell’informatica, mentre le console sapevano troppo di svago fine a se stesso. Anche per questo ebbero poco successo in Italia rispetto ai computer. Quindi dalle scuole elementari fino aitrentenni particolarmente tecnologici, o i quaranta-cinquantenni cresciuti con 2001: odiseea nello spazio, Star Trek, Doctor Who e Urania. Le donne erano quasi del tutto assenti. Per questo l’idea di avere Dylan Dog e Diabolik, che sono i fumetti in assoluto più letti dalle donne.

Oltre a questo potevate contare anche su una distribuzione innovativa…

 Quando annunciai che avremmo utilizzato le edicole ci fu una standing ovation: bisogna considerare che l’edicola per la mia generazione è centrale, ci forniva 35.000 punti vendita sparsi ovunque, dal paese più sperduto a Milano. Il packaging fu studiato nei minimi dettagli con Stefano Grandi, sempre mettendo bene in chiaro che stavamo vendendo videogiochi e non fumetti, usando chiaramente il logo di Simulmondo accanto a quelli delle case di fumetti.

Il tutto era stato anticipato da un gioco da negozio, Dylan Dog e gli uccisori che fu uno dei nostri più grandisuccessi. L’animazione fatta da Michele Sanguinetti fu paragonata a quella di Prince of Persia. Bonelli credette molto nel progetto e ci concesse una storia inedita di 12 pagine, cosa rarissima, che si trovava nella scatola del gioco. Oggi è un cult su e-bay. Ciò fece vendere un sacco di giochi, perché lo compravano anche coloro a cui non fregava niente del videogioco ma erano collezionisti sfegatati del fumetto.

Era una storia originale?

Era la storia del gioco, l’antefatto: perché Dylan si trova in quella casa.

Anche perché la trama de Gli uccisori non era la stessa dell’omonimo fumetto…

Tengo a precisare che non abbiamo mai fatto sceneggiature copiate dai fumetti, ma scrivevamo storie originali e interattive. Uno dei miei mandati di produzione era proprio questo: il gioco comincia dove il fumetto non può andare; comincia quando vuoi far fare qualcosa a Tex ma lui va da un'altra parte, perché il fumetto va dove dice lui e il videogioco va dove dici tu.

I giochi da edicola furono un successo enorme: i primi tre numeri esauriti. E allora scoprimmo i punti debolidell’edicola, cioè la lentezza dell’informazione, perché apprendi che l’articolo è esaurito quando è già il momento di far uscire il secondo episodio, mentre io dovevo saperlo prima per ristamparlo in tempo.

Al successo contribuivano una serie di fattori quali il prezzo basso, la distribuzione in tutte le edicole, i personaggi famosissimi, i fumetti in regalo (albi di 4 pagine), i media che ti riprendevano. Il successo mi spinse a fare altri personaggi, e quando penso ad un fumetto ci ho messo un secondo a pensare a Tex, il più cult in assoluto, cui la mia generazione è legatissima e che avrebbe dato ulteriore risalto a Simulmondo. Infine pensai che avremmo dovuto pensare anche di fare i nostri personaggi: l’idea mi venne nel 1991 mentre ero a Los Angeles ad incontrare quelli della Lucas per i nostri giochi, allora pensai ad un investigatore della realtà virtuale. Uno che vivesse un po’ di qua e un po’di là. Oggi è un’idea che abbiamo tutti, ma all’epoca non era così diffusa. Così mi sono immaginato una vita al di là dello schermo e in questa vita c’erano anche i cattivi, i delinquenti. E Simulman faceva il poliziotto sia di qua che di là. Così creai anche tutta una serie di personaggi di contorno: da una parte il nemico con la faccia di Andy Warhol, che si chiama SS-DOS, con ovvio gioco di parole; dall’altra l’ultima persona che ti puoi aspettare come poliziotto, cioè Cactus, che ha la faccia del popolarissimo giocatore di basket Jabbar ed è su una sedia a rotelle, perché nel Simulmondo non contano le gambe, ma il cervello!

Anche queste due serie fecero un grande successo: non è una cosa da niente raggiungere gli undici numeri con un mensile. Tex ebbe anche un’avventura da negozio, Piombo Caldo, che fu il titolo Simulmondo con il più gran numero di dischetti, non ricordo nemmeno quanti fossero. Nel frattempo comprai anche i diritti di Marvel (Spider-man e X- men, che non pubblicammo mai), che ci aprirono il mercato americano (ne producemmo i dischetti per Wal-Mart) e di Martin Mystère di cui facemmo il gioco ma non riuscimmo a farlo uscire. In quel periodo tutti ci offrivano i loro personaggi: Alan Ford, Kriminal, Satanik. Abbiamo fatto più di cento titoli, era chiaro che alla fine avrebbero saturato il mercato.

 Nel frattempo ci aveva chiamato Rizzoli per fare una coproduzione: noi avremmo prodotto e loro distribuito. E così facemmo un gioco che arrivò a 30 puntate, tradotte in 8 lingue. Credo che, ad oggi, sia il gioco per home computer che ha venduto di più: 200.000 copie al primo numero a 4.900 lire, che non era un prezzo basso. Era pieno di trovate carine, si poteva addirittura incontrare Simulman, ma contribuì anche lui alla saturazione.

Così arriviamo agli ultimi anni…

 Il successo di Time Runners attirò l’attenzione della Rai che ci chiese di progettare i giochi per un suo programma per bambini che avevano intenzione di trasmettere e che si sarebbe chiamato Solletico. Qui comincia tutta la stagione legata ai giochi televisivi. Siamo in un periodo in cuiavviene la grande esplosione delle console con Playstation e io comincio a ripensare alla mia attività: gli home computer sono una stagione irripetibile, il PC si sta imponendo come macchina da gioco, continuare sulla vecchia strada era come pensare di fare film muti oggi.

Una stagione di Simulmondo è finita e se ne apre un’altra, che segue tre strade principali: la pubblicità, con FruitJoy e Pitt, la televisione e le riviste. La pubblicità può sembrare un passo indietro, ma a me sembra molto interessante perché introduce l’idea dell’advergaming, la pubblicità, dopo aver usato cinema e televisione,può e deve usare anche il videogioco come mezzo. Furono grandi successi anche economicamente e ne facemmo altri ad esempio con Sammontana.

In TV facemmo decine di games per diverse fasce d’età: da Zacko, una specie di Zorro per bambini piccoli, Tobia e altri. Ma sperimentammo anche il multiplayer, con la serie Mio (CalcioMio, BasketMio). Ogni bambino controllava un personaggio con un tasto del telefono, giocando contro altri bambini sparsi per tutta la penisola. In cinque anni a Solletico ne facemmo di tutti i colori: facemmo il gioco per imparare a guidare e vari giochi fantasy.

Con la Rai continuò la nostra collaborazione con uno strumento per analizzare le situazioni dubbie delle partite di calcio, per una trasmissione sportiva chiamata TGS con De Laurentiis. Da lì ricavammo un tool che venne venduto in tutti i paesi calciofili: Spagna, Argentina e via dicendo. Poi l’ho venduta agli americani. Sempre per la Rai facemmo una collaborazione con Piero Angela: Viaggio nel corpo umano, su Cd che nel frattempo era diventato il supporto standard. Infine, sempre perché volevo essere aperto alle collaborazioni più varie, facemmo una coproduzione con il secondo editore religioso italiano, EDB, per fare Mosè.

Poi le riviste: presi il nome di un gioco che mi piaceva molto, Little Computer People della Activision, e creammo una rivista su Cd-Rom che arrivò a sei edizioni. Poi ci venne l’idea, anche questa pionieristica, di unirla ad una rivista come MC Microcomputer e andò avanti fino alla chiusura di MC nei primi anni 2000. Poi facemmo la stessa cosa con il Cd- Rom del futurshow, allegandolo a Repubblica, nel quale c’era il museo del videogioco e il Cd vendette un milione di copie. Il Futurshow era l’espressione delle mie idee, una fiera su qualcosa che ancora non c’era e i ragazzi ci andavano per incontrarsi, parlare e discutere, perché internet c’era ma non era il collante che è oggi.

A questo punto si sentiva che era arrivata la fine di un mondo: gli home computer lasciavano il campo ad internet e noi facemmo giochi per internet. Bar Sport per Banca Sella e uno con Sviluppo Italia una sorta di antesignano degli acceleratori di start up, un’iniziativa statale per finanziare le imprese, che era una città punta e clicca alla Sim City, mentre Bar Sport era un quiz le cui domande venivano cambiate tutte le settimane, c’era un premio settimanale e un premio finale.

Non volevo fare giochi per le console perché andavano contro la libertà produttiva dell’impresa. Le console tiobbligavano a comunicare loro il titolo, inviare una sceneggiatura perché l’approvassero, farti approvare varimilestones della produzione per impedire che tu ci mettessi cose che loro non volevano. Poi bisognava sottostare alle scadenze che venivano imposte da loro e le copie fisiche erano da loro prodotte. A me non andavano queste costrizioniproduttive e non volevo produrre uno, due titoli l’anno con il budget delle console. E quindi concentrare il rischio in questi due titoli. Alcuni giochi come MilleMiglia sono arrivati su console è vero, ma sono stati fatti dai licenziatari giapponesi.

Ma comunque i giochi veri, non legati a televisione o pubblicità, fatti in questo periodo sono molto pochi…

...sono pochi perché non era conveniente, c’era troppa concorrenza, il mercato che ci interessava l’avevamo saturato in precedenza. Ci interessavano di più le collaborazioni e gli eventi speciali, che rendevano meglio. Inoltre un’epoca era ormai finita e io ho sempre cercato di non innamorarmi delle epoche per non andare a fondo con loro. Davanti a noi c’erano molte opportunità, come i giochi su internet che nessun altro, a parte noi, sapeva fare e perciò guadagnavamo moltissimo.

L’ultimo gioco che volevo fare era l’avventura di un ragazzo che comincia a giocare a calcio nei pulcini e arriva nelle più grandi squadre del mondo. L’avventura di una vita, una biografia, si chiamava Soccer Champ. Io e Natale Fietta, autore di un bel pezzo del tool delle adventure, facemmo un lavoro infernale per l’intelligenza artificiale. Mentre I play stava su un floppy da 512 k questo stava su un Cd Rom, per farlo ci è voluto un anno e mezzo e non sto qui a parlare del tempo speso in testing per controllare che tutto funzionasse. È micidiale, ha algoritmi che calcolano la percentuale di gol in base al numero dicorner, cose che i games di oggi ancora non hanno. Uscì in negozio nel 1997 distribuito da Software e Co. e poi anche in edicola con la casa editrice Bramante, che lavorava molto con la Rai.

Era un’idea che avremmo dovuto assecondare, passare su console, ma non ne avevo voglia anche perché sempre di più mi stavo interessando ad altre cose, alla finanza e all’insegnamento universitario. E quindi Simulmondo si è addormentata, non è chiusa, è in sonno attendendo di essere ripresa. Anzi, vive ancora nei miei progetti attuali Finanza World e Carlà Design. La prima si occupa della parte finanziaria, la seconda di interfacce, di come si gamefica la comunicazione e si crea l’immagine di un’azienda. Perché Simulmondo fu anche questo: un modello di business (come si dice oggi) per come si debba fare un impresa nel campo dell’informatica e della comunicazione, gameficare le interfacce e rendere ogni business più interattivo. Tanto che il logo di Carlà Design richiama quello di Simulmondo e Finanza World ne riprende il nome (mondo – world).

Un ultima domanda sulla concorrenza italiana: com’erano i rapporti con Idea e Genias?

Sono nate entrambe diversi anni dopo Simulmondo, tanti anni se conti che l’intera storia di Simulmondo è durata 10 anni. Non erano paragonabili a noi per dimensioni e per apertura al mercato. E poi loro volevano fare game, mentre io avevo l’idea di fare qualcosa di più: fare il mondo simulato e portare i videogiochi all’interno del dibattito culturale.

Conoscevo sia Arioti che Farina, quello di Idea, che era emanazione di Leader uno dei maggiori distributori italiani assiemea CTO. Hanno fatto pochi giochi rispetto a noi e quelli sul fumetto sono andati a rimorchio della nostra idea.

E questo gioco misterioso che si intitola Extasy?

 Era da anni che cercavo di ricordarne il nome! È l’unico gioco che esula dalla nostra produzione. Mi fu portato già fatto e io gli diedi solo il nome: all’epoca l’ecstasy era molto di moda, era la droga da discoteca, e c’era anche un gruppo musicale inglese chiamato XTC [leggi ecs-ti-ci]. Era un gioco simile a Tetris, che andava molto all’epoca. Provammo a lanciarlo ma vendette 2000 copie.

 Parlando di produzioni particolari dovremmo menzionare anche una divisione di titoli educativi Simulmondo, che produsse decine di corsi interattivi per insegnare la matematica, l’italiano e la fisica ai bambini. Prodotti accanto ai giochi sportivi e adventure.

A proposito di adventure non si può non citare Italian Night…

Questo gioco ebbe uno strano destino, perché è diventato il gioco più cult di Simulmondo, per una semplice ragione: è difficilissimo completarlo. Ancora oggi un sacco di gente mi chiede la soluzione su Facebook. Ma io la soluzione non me la ricordo, come non la ricordano molti altri simulmondiani tra cui, credo, gli stessi autori perché non c’è alcuna soluzione su internet.

All’epoca era un gioco suggestivo, con belle immagini, un’atmosfera “bladerunneriana” e forse anche un titolo carino. Effettivamente ha aperto la strada per gli adventure che seguirono…

Si vede un po’ l’ispirazione da Mean Street di Access…

Nella mia carriera da giornalista ho sempre visto i fratelli Carver, proprietari della Access, come punti di riferimento per i videogiochi e tutt’oggi ritengo che Leader Board sia uno dei più grandi giochi mai fatti, anche rispetto ai simulatori fatti con le tecnologie odierne. La sensazione di immersione è tale che ne ho vissute di simili in pochi altri giochi, e stiamo parlando di un gioco per C 64!

Non ricordo questo Mean Street, ricordo Under a Killing Moon, ma è successivo a Italian Night. Tuttavia è possibile che sia stata un’ispirazione. L’ispirazione principale è Blade Runner, di cui usammo anche delle immagini scansionate.

Parlando di adventure bisogna menzionare un gioco come Dylan Dog: attraverso lo specchio che risulta un’eccezione nella vostra produzione…

È completamente diverso dal resto e secondo me è un gioco bellissimo, parlando da giornalista. Ha una grafica stupenda per l’epoca e ricrea tutti questi ambienti, come il salotto di Craven road, che mi piacciono moltissimo. Ha una grande atmosfera, mi ricorda Deja vù o, ancora di piu Borrowed Time, con quelle atmosfere hard boiled alla Chandler (una delle mie grandi passioni). Una bella musica e un bel packaging.

Inoltre, come tutti gli altri prodotti da negozio e sportivi, la scatola conteneva le nostre pins, di cui tutti sono a caccia ora su e-bay: erano spillette da giacca fatte a mano con Dylan Dog, Tex, tennis, calcio e anche quella con illogo Simulmondo. Nessun altro ha fatto merchandising con i personaggi Bonelli, gelosissima dei propri prodotti: Decio Canzio, Sergio Bonelli e anche Tiziano Sclavi ci avevano preso in simpatia, anche perché davamo loro una barcata di soldi di royalties.

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