Appendice I: Intervista ad Ivan Venturi, programmatore e direttore di produzione di Simulmondo. Fondatore di IV Productions. Effettuata in data 25/05/2015

Cominciamo dicendo quale funzione svolgeva all’interno dell’azienda.

All’inizio, sono partito come programmatore. Ma l’azienda non era ancora partita, quindi il primo videogiocopubblicato a marchio Simulmondo è stato Bocce nel 1987, mentre l’azienda si è costituita nel 1988.

All’inizio ero programmatore principale dell’azienda, l’unico, sviluppavo su Commodore 64. Poi, dopo il militare, ‘89-„90, dopo un breve periodo di nuovo alla programmazione sono diventato direttore di produzione: quindi gestivo tutti i progetti che la Simulmondo produceva.

Quando è nata l’idea di fare un’azienda di videogiochi e quando è effettivamente nata l’azienda?

È nata nel 1988 come società a responsabilità limitata. L’idea di fare l’azienda la ebbe Francesco Carlà, che al tempo era uno studente del DAMS e aveva 23 anni – io ne avevo 14 quando ci siamo incontrati la prima volta – lui era ungiornalista, scriveva su Rockstar, e stava iniziando una rubrica su MC Microcomputer che si chiamava Playworld. Aveva questo interesse a fare l’azienda, il mondo simulato, il Simulmondo, il simulworld. Poi si è reso conto che c’erano le possibilità anche produttive per farlo – perché se vuoi fare un’azienda che fa videogiochi ma non c’è nessuno che fa videogiochi è un problema – e io facevo videogiochi e quindi così è nata. Prima c’è stata la volontà di fare alcuni progetti, alcuni sono morti, non hanno mai visto la luce, altri come Bocce sono stati portati alla luce e messi sul mercato.

Quali erano i suoi giochi preferiti all’epoca? Hanno influenzato il suo lavoro?

Mi piacevano gli adventure: ho iniziato con gli adventure games testuali nei primi anni ottanta, gli adventure di Scott Adams su Vic-20, che giocavo a casa di un mio amico. Poi, qualsiasi videogioco: ero un consumatore onnivoro.

Mentre lavoravo, ho cominciato a giocare molto meno. Mentre sviluppavo F1 manager, o forse anche dopo, tornato da militare, giocavo molto a Myth, che era un arcade platform molto ben fatto, con un Perseo che andava nell’Ade e faceva fuori un sacco di creature.

Nei primi anni 2000 ho giocato molto a Midtown Madness, in cui con la macchina andavi dove diavolo ti pareva. Ho giocato molto ad un gioco italiano, fatto da Davide Pasca qualche anno fa, che si chiama Fractal Combat, sviluppato per Ios. A quello ho giocato un’estate intera, anche perché era abbastanza facile e io faccio schifo a giocare,perdo anche a quelli che faccio io.

Non hanno influenzato direttamente il mio lavoro: io ho iniziato a fare giochi per l’esigenza fortissima di dare sfogo alla mia creatività, creare mondi, che non erano necessariamente quelli che volevo interagire. Io ho iniziato a fare giochi in maniera semi professionale da subito: ad esempio, Bocce a me faceva schifo, ma era il gioco italiano, Carlà voleva fare quello. Nel frattempo stavo facendo un gioco che si chiamava Columbus Race, in cui tre astronavi madri – la Nina, la Pinta e la Santa Maria – andavano a colonizzare lo Spazio. Alla fine ho fatto quello che dovevo fare: ogni cosa che fai puoi farla bene, puoi farla come ti pare e magari anche appassionartici.

Invece le idee di Carlà hanno influito molto sull’azienda immagino…

 Alla fine il videogioco lo facevo io. Lui teorizzava molto, è vero, ma io sviluppavo su Commodore 64 ed ero ancheabbastanza chiuso nelle mie idee, avevo sedici, diciasette anni, e spesso avevamo delle discussioni anche sulla gestione. E lui aveva perfettamente ragione sulla gestione del tempo e del progetto, che per me non poeteva essere pianificata in nessun modo, mentre lui mi diceva che occorreva pianificare.

Però sicuramente lui aveva un approccio molto teorico, mentre io - sia per mentalità sia per crescita – ho un approccio estremamente pratico. Facevamo le cose in modo diverso.

Com’era la situazione del videogioco in Italia all’epoca? 

Non c’era niente. Alcune cose in edicola, programmate in BASIC, Avventura nel castello per Apple. Ma la concorrenza non esisteva. Simulmondo si è trovata nella fortunata situazione che chiunque voleva fare videogiochi in Italia scriveva a noi. E, nella fattispecie, incontrava me.

All’inizio degli anni ‘90 c’era Idea, che, onestamente, non ha mai raggiunto le dimensioni di Simulmondo come quantità e qualità dei prodotti. Nei primi anni ‘90 Simulmondo, qui a Bologna, era il motore del mercato videoludico in Italia, anche perché non c’era nient’altro.

Prevalevano i prodotti americani, ma quando facemmo Dylan Dog e gli uccisori, Italy

‘90 soccer o I play: 3D Soccer i più venduti erano i nostri. Andavamo a chiedere anonimamente nei negozi di videogiochi: “Qual è il prodotto per cui c’è più attesa?”. Avevamo un certo seguito: con Dylan Dog fu qualcosa di enorme.

La pirateria c’è sempre stata: il mio primo gioco di successo, Italy „90 soccer, lo trovai in edicola 3 mesi dopo che l’avevano pubblicato, giusto il tempo di sproteggerlo, copiare le cassette e distribuirlo. Anche a me è capitato di piratare giochi, ne avevo centinaia, chiaramente nessuno comprato. Alcune cose, per esempio Space Taxi, non c’erano in negozio, tu lo ricevevi perché c’era l’amico che te lo dava. La cultura videoludica era alimentata dalla pirateria in quegli anni, la gente non sapeva cosa fossero i videogiochi, men che meno i giudici: non c’erano gli strumenti giuridici per difendersi. Se facevi causa a qualcuno che ti aveva piratato il gioco, il giudice non capiva di cosa si stava parlando, diceva: “ma è solo un giochino”; non c’era comprensione del valore economico che vi stava dietro.

A quanto vendevate un gioco?

Quelli in box mi pare 24.000 lire, in edicola il mensile andava a 14.000 lire. Versione PC e Mac.

Una cosa interessante: quanto ci metti a finire un volume di Dylan Dog? Un’ora. E costa? 3€. Il gioco era progettato per durare il doppio del tempo di vita di un fumetto. La quantità di soldi che ci spendevi per il tempo che ci dedicavi era paragonabile a quella del fumetto.

Quando si svolse il Simulmondo Party?

Nel 1988. Avevamo appena preso la sede in viale Berti Pichat. Io avevo appena fatto la maturità. Era settembre – ottobre, prima che sviluppassi F1 Manager, per cui mi chiusi in casa letteralmente per finirlo in due mesi.

Fu questo evento in cui Carlà chiamo tutti gli sviluppatori, tutti i ragazzi che collaboravano con noi, naturalmente io ero di casa, ero collega di Francesco, cioè avevo con lui una collaborazione molto più assidua e ci conoscevamo da tre anni. In quell’occasione conobbi Riccardo Cangini, che successivamente ha fondatoArtematica. Molti ragazzi che sono andati alla Genias. C’erano i fratelli Dardari, di Forlì, che avevano fatto il primo calcio 3D per Amiga.

Carlà spiegò la sua strategia e fece accordi con ogni sviluppatore: ognuno andò in ufficio con Carlà e firmò un contratto per questo o quel gioco, gettando le basi del piano editoriale Simulmondo. Anche se dei 15 progetti messi in campo quel giorno molti non videro mai la luce, perché il tasso di mortalità di un gioco era altissimo all’epoca.

La stessa sorte che toccò a Rimini, mare azzurro?

Era uno di quei progetti assurdi di Carlà. E noi gli dicevamo: “Francesco, ma chi se lo incula?”.

Erano progetti interessanti, erano serious games, praticamente interactive novel. Ma non si potevano fare. Erano comunque idee innovative, nel senso che molte cose a cui adesso siamo abituati Francesco le aveva già in mente nei primi anni ‘80, ma non avevano senso per una questione tecnica.

Come era organizzata la routine di sviluppo di un gioco? 

Dipende dalla fase storica dell’azienda. All’inizio era tutto nelle mani del singolo sviluppatore. Il concept veniva da Carlà, come nel caso di Bocce, o da altri, ad esempio F1 Manager fu un’idea di Nicola Paggin, poi io sviluppai la versione Commodore e altri ragazzi la versione Amiga, ma facemmo tutto noi: grafica, storyboard, musica, il logo della Simulmondo in versione psichedelica.

Per gli 8 bit si sviluppava con un one-man team, per i 16 bit era già più complicato. Con gli anni ‘90 abbiamo fatto vari simulatori sportivi su cui lavoravano gruppi di ragazzi, mentre per Dylan Dog occorse un team di 10 persone. Millemiglia, per Amiga, invece fu sviluppato da un ragazzo solo, Mario Savoia, che era un genio. L’idea del gioco fu di Carlà, che prese anche il marchio della Millemiglia. Ma non ebbe particolare successo.

Per l’edicola il processo era proprio da catena di montaggio: lavorando sette giorni la settimana, sedici ore al giorno, tirando via sulla qualità. Il che fu il motivo per cui molti lasciarono.

Com’era organizzata l’azienda?

Lavoravamo in ufficio, in viale Berti Pichat. C’era l’amministrazione, c’era un ragazzo che si occupava della grafica, io ero direttore di produzione. Sotto di me c’erano i responsabili dei vari settori: storyboard, grafica 2D, grafica 3D, montaggio, engine e musica. E ognuno faceva la sua parte operativa e gestiva i collaboratori esterni. Negli anni ‘90 eravamo circa una ventina di interni.

Come avvenne il passaggio dai simulatori ai giochi basati su fumetti?

Avvenne che Carlà ebbe questa idea. Dylan Dog funzionava e lui ebbe l’idea di farci il gioco e prese i diritti sul personaggio. Questo avvvenne nel ‘90-’91, poi la lavorazione impiegò un paio d’anni.

Carlà ha dichiarato che volevate colmare il gap con le case di produzione inglesi e francesi. Ci siete riusciti?

All’estero la situazione era enormemente più sviluppata: l’errore grossissimo che facemmo all’epoca e che influenzò lo sviluppo del videogioco italiano fino ad oggi, imputabile specialmente a chi dirigeva l’azienda, fu una spinta insufficiente all’internazionalizzazione. Noi facevamo giochi per il mercato interno, con Dylan Dog ci sei inchiodato. Con Dylan Dog per edicola, poi: il personaggio è tutto italiano, la serialità pure e l’edicola fatta così c’è solo in Italia. I fumetti Bonelli all’estero non esisterebbero così, in Francia i fumetti si trovano solo nelle fumetterie. Non era un modello esportabile.

Facemmo versioni in inglese di Dylan Dog e F1 Manager, ma non ci fu una spinta sufficiente all’internazionalizzazione. Fu un peccato, soprattutto per i manageriali sportivi: I play: 3D soccer era il miglior prodotto di calcio in assoluto ed era un prodotto unico perché era il primo gioco di calcio in prima persona.

Si poteva fare di più, ma anche Francesco non era un uomo di business.

In Europa la situazione era completamente diversa, c’erano grandi realtà. In Italia c’è sempre stato un approccio estremamente amatoriale al mercato, mentre all’estero lo si prendeva molto più seriamente. Da subito gli inglesi hanno fatto uffici marketing per i videogiochi, qui era molto più artigianale anche per una situazione piùarretrata da un punto di vista tecnologico: in Italia gli home computers sono arrivati in ritardo.

Si può dire che i giochi sviluppati per la televisione siano stati un modo per creare il gaming online quando in Italia Internetnera ancora poco diffuso?

Io so poco di quella fase perché me ne sono andato nel 1993. I giochi per Solletico li ha gestiti Riccardo Cangini. Si tratta di Business to Business, lavoro su commissione, non è stata un’idea originale di Simulmondo, ma dipendeva dalle strutture della Rai che erano molto più grandi e potenti, e inaccessibili se non c’eri già dentro.

Come è avvenuto il passaggio ai giochi basati su personaggi originali?

Ha fatto da traino la presenza di una catena di montaggio che produceva già quel tipo di cose. Francesco aveva le sue velleità autoriali quindi fece Simulman, che non fu un successone, anche perché lontano dal successo di Dylan Dog e Diabolik che avevano segnato il nostro momento più positivo.

Per Time Runners contava la pontenza dell’editore, Fabbri, che stampava 80.000 copie.La distribuzione era affidata a distributori di periodici, che distribuivano i giochi alle edicole come fossero fumetti o giornali.

Ma a metà ‘93 la cosa si è spenta anche perché chi li sapeva fare se ne è andato. Perché per fare videogiochi serve gente che sappia fare i videogiochi. Se tutti quelli che li sanno fare vanno via non basta volerli produrre. I videogiochi sono - e sempre saranno - una cosa complicata da fare: non è un gioco fare giochi. Per nostra fortuna. Nel senso che più le barriere all’accesso sono alte e più è prezioso quello che facciamo.

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